Vita Nostra 2001, anno 41, n. 05, Domenica 4 febbraio 2001, p. 6
- Traduzione in sardo di Lc 6,17-26
- Commento di traduzione sul problema della verifica dell'accuratezza
Traduzione
di Antioco e Paolo Ghiani
Consulenza esegetica di Antonio Pinna
17
Ndi fut abasciau cun issus e si fiat frimau in logu campu, e ddu iat
truma manna de iscientis suus, e genti meda de su pòpulu de totu sa Giudea e
de Gerusalemi e de sa costera de Tiru e de Sidoni,18 chi fiant bennius po dd'ascurtai
e po èssiri sanaus de is malis insoru; e icussus chi fiant fertus de spiridus
malus torrànt sanus.
19 E totu sa genti cicàt de ddu tocai, ca de issu ndi bessiat una frotza e
sanàt a totus.
20 E issu, pesaus is ogus faci a is iscientis suus, naràt:
«Biadus is pòburus,
ca de bosatrus est s'arrènniu de Deus.
21 Biadus is chi imoi patint fàmini,
ca eis a èssiri pràndius.
Biadus is chi imoi funt in prantu,
ca eis a arriri.
22
Biadus seis candu is òminis s'ant a tirriai
e candu s'ant a scumunigai e a isbregungiri e nci ant a bogai a foras su nòmini
de bosatrus comenti de malu,
po mori de su Fillu de s'omini.
23
Alligraisì, in cussa dì e tiddidai de prexu,
poita, castiai, si ddu nau, sa paga de bosatrus est manna in su celu.
Aici e totu, difatis, is babus insoru faiant a is profetas.
Po contra,
24 Ohi! Bosatrus is arricus,
ca eis giai comporau su contzolu de bosatrus.
25 Ohi! Bosatrus, is chi imoi seis satzaus,
ca eis a patiri fàmini.
Ohi! Is chi imoi si nd’arrieis,
ca eis a èssiri in dolu e in prantu.
26
Ohi! Candu totus is òminis ant nai beni de bosatrus.
Aici e totu, difatis, is babus insoru faiant a is profetas frassus».
Nel n. 33 di Vita Nostra del 24 settembre 2000,
avevamo accennato alla verifica di una traduzione, dicendo brevemente che essa
riguardava tre punti: l’accuratezza, la chiarezza e la naturalezza. Che cosa
vuol dire verificare l’accuratezza di una traduzione? In breve, vuol dire
esaminare se la traduzione proposta ha dei “pezzi di informazione” in meno o
in più rispetto al testo di partenza. È quanto mai facile durante i vari
passaggi di una attività di traduzione omettere inavvertitamente, ma anche con
piena consapevolezza, un aspetto del senso originale oppure, al contrario,
aggiungervi dei sensi o delle sfumature non presenti, e questo per vari motivi.
Può capitare ad esempio che il traduttore, o il gruppo di traduzione, sia
preoccupato di un aspetto particolare di contenuto e ne trascuri uno ritenuto
eventualmente secondario. Oppure può capitare che tutta l’attenzione sia
stata attratta dalla preoccupazione di usare un certo frasario della lingua di
arrivo, e così si preferisca la “naturalezza” di una certa espressione
anche a costo di accettare la sua troppo imprecisa corrispondenza con il testo
di partenza.
Vediamo un esempio pratico nel testo delle beatitudini di Luca.
Una traduzione pubblicata sull’Ortobene nel 1985 a cura del prof.
Gavino Pau così traduceva la quarta beatitudine: “Biados bois, ca sa zente
bos at a odiare, cando bokke an a bocare a irroccos
e maledissiones e azes a esser juttos a lumen comente zente de malintrannas pro
more 'essu Fizu 'ess'Omine”. Indubbiamente, è una traduzione che eccelle
per “naturalezza” e efficacia espressiva. Ma è altrettanto accurata?
Due osservazioni sono necessarie.
1) Il Pau aveva sempre introdotto il motivo o la conseguenza della
“beatitudine” con la causale “ca”: “Biados sos ki sezis famìos ca
azis a esser gustaos. Biados sos ki como sezis pranghende, ca azis a ridere”.
È
chiaro dunque che un lettore prenda allo stesso modo la causale “ca”
introdotta nella quarta beatitudine, e pensi che il motivo della beatitudine sia
l’essere odiati. Ora questo non corrisponde affatto al senso del testo. Forse
il Pau ha voluto introdurre di sua iniziativa (non c`è infati in greco) la
medesima causale “ca” per avere un testo finale simmetrico e costante:
“Biados bois, ca…”. Ma è proprio questa simmetria che manca nel testo di
Luca, che invece del “perché” usa subito dopo e per due volte il
“quando”: “Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi
metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come
infame…”. La motivazione della quarta beatitudine arriva nel testo di
Luca in ritardo rispetto alle tre precedenti solo quando aggiunge in una nuova
frase indipendente: “Rallegratevi in quel giorno ed esultate, perché,
ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo” (Cei 1997). Il motivo
della beatitudine non è dunque l’odio, ma la ricompensa nel cielo. Ciò che
è tutt’altra cosa rispetto a quanto lasciava capire la versione del Pau.
2) Il rapporto tra la quarta beatitudine e le prime tre lascia capire
che, almeno a livello del testo lucano, si sta parlando propriamente non dei
poveri o degli affamati o degli afflitti in genere, ma di un medesimo gruppo di
persone, quello dei discepoli, la cui povertà, fame e afflizione è vista in
collegamento con il loro stato di perseguitati. Il vocabolario della quarta
beatitudine è da questo punto di vista abbastanza indicativo, sia
implicitamente nell’uso dei verbi sia esplicitamente nell’espressione “a
causa del mio nome”. Si tratta infatti di verbi a sfondo soprattutto
religioso. Il primo verbo, “mettere al bando” traduce aphorizô, che
propriamente significa non accettare più qualcuno nel proprio gruppo. Si tratta
quindi della decisione tipica di una comunità religiosa che estromette un suo
membro dal proprio seno. Alla luce di questa prima azione devono essere lette le
seguenti due tradotte da Cei 97 con “vi insulteranno” e “disprezzeranno
il vostro nome come infame” (in Cei 71: “respingeranno il vostro nome
come scellerato”). Per quanto riguarda il secondo verbo, si tratta di un
“insultare” connotato, come si addice a una “scomunica”, da un aspetto
“pubblico”. Ciò appare chiaramente se confrontiamo ad esempio il testo di
Ebrei 10,32-33: “Richiamate alla memoria quei primi giorni: dopo aver
ricevuto la luce di Cristo, avete dovuto sopportare una lotta grande e penosa,
ora esposti pubblicamente a insulti - oneidismois
- e persecuzioni, ora facendovi solidali con coloro che venivano trattati in
questo modo”. Per quanto riguarda, infine, la terza azione, il greco dice
letteralmente “gettare fuori” - ekballô -. Il testo più vicino che usa
questa medesima espressione in ebraico è quello di Dt 22,14.19, dove ugualmente
si tratta della denuncia pubblica di un marito contro la moglie. La connotazione
di “pubblicità” ha qui tuttavia una conseguenza particolare, in quanto
l’esclusione pubblica di un membro scomunicato ha come conseguenza che di
fatto si eviterà di fare anche il nome di quella persona, letteralmente il loro
nome è come “gettato fuori”, ignorato. Non è un caso, come qualcuno ha
fatto notare, che i documenti ebraici contemporanei alla separazione del
cristianesimo dall’ebraismo o di poco ad essa successivi, ignorino del tutto o
quasi la storia di Gesù e la presenza dei cristiani. Tutto il contrario, anche
qui, di quanto di per sé dice la traduzione del Pau, che parla di gente
“portata a nome come gente di malaffare”.
Queste
osservazioni spiegano le scelte fatte nella traduzione Ghiani: “Biadus
seis candu is òminis s'ant a tirriai e candu s'ant a scumunigai e a
isbregungiri e nci ant a bogai a foras su nòmini de bosatrus comenti de malu,
po mori de su Fillu de s'omini. 23 Alligraisì, in cussa dì e tiddidai de prexu,
poita, castiai, si ddu nau, sa paga de bosatrus est manna in su celu”.
Antonio Pinna